sabato 11 settembre 2004
11 settembre
Beslan - Ossezia
Nel ricordo dell'11 settembre, voglio inserire l'articolo che Fatima Moliardo ha scritto per l'Agenzia Obiettivo Minori su come noi adulti e soprattutti i nostri ragazzi si rapportano con le immagini di guerra presenti nei telegiornali.
Come spiegare ai bambini le notizie proposte da giornali e telegiornali? Come rispondere alle loro inquietudini se noi stessi ci troviamo spesso impietriti di fronte alla drammaticità delle immagini di ciò che ci accade intorno?
Questi ultimi anni non sono stati, come aveva proclamato l'Assemblea Generale dell'Onu, il "decennio del diritto internazionale".
Un ragazzo che oggi conta quindici anni, nato sotto l'ultimatum di Saddam al Kuwait, ha già subito un interminabile repertorio di immagini di guerre, da quando, per la prima volta, le immagini belliche sono entrate nelle case attraverso il mezzo televisivo, a opera soprattutto alla CNN, che, ai tempi della “guerra del Golfo”, ha rivoluzionato il mondo dell'informazione mediatica, ai primi anni '90.
Di certo i quindicenni di oggi comunque non sanno dire chi erano i paesi che combattevano, né perché combattevano. Ma sicuramente ricordano le immagini che hanno visto e che rimangono impresse nella loro memoria in una disordinata babele. Serbia, Croazia, Bosnia, la "restaurazione di fine secolo". Kashmir, Pakistan, Israele, Palestina, Iraq.
Guerre sacre, guerre profane, con alibi umanitario o senza.
La tecnologia ci ha dato la possibilità di aumentare in maniera vertiginosa la potenzialità delle comunicazioni e diventa doveroso chiedersi dove finisce il diritto di cronaca, oltre che essere consapevoli del fatto che l’informazione, soprattutto in tempo di guerra, è sempre mediata e guidata dalle ragioni della propaganda.
E' giusto che un bambino venga bersagliato da immagini di orrore? E' giusto che esse vengano trasmesse nella loro realtà e con i loro contenuti drammatici, angoscianti e, talvolta, ingiustificati?
O per preservare l'innocenza dei nostri bambini è necessario metter loro sotto una campana di vetro, magari seguendo il metodo Steiner, che preclude in maniera categorica l'uso della televisione?
Forse è meglio trovare una via di mezzo.
I bambini assistono a notizie e a immagini terribili, notizie che talvolta riguardano i bambini stessi. Anche quando non accade l' inimmaginabile, come in Ossezia, rimangono i bombardamenti, gli omicidi, il terrorismo. Guardano immagini di dolore, di distruzione e di morte che spesso vengono enfatizzate, reiterate e riproposte fino alla nausea.
Il crollo delle Torri Gemelle è stato un evento traumatico per tutto il mondo soprattutto per la reiterazione dell'evento.
Per i bambini, specialmente i più piccoli, dopo il crollo dei due grattacieli, sono crollati altri due, e poi altri due, e altri due ancora, poiché la stessa immagine, divenuta un fatto cumulativo, ha fatto crollare loro addosso tutto il mondo nel giro di un quarto d'ora.
Gli esperti hanno consigliato ai genitori americani di parlare ai loro figli della guerra e del terrorismo per non lasciarli soli con le loro paure. Parlare significa necessariamente spiegare, anche in un momento storico e sociale in cui gli adulti stessi avrebbero bisogno di essere tranquillizzati e rasserenati.
Come trovare le parole per dare una spiegazione plausibile di cosa sia successo nella scuola di Beslan senza rischiare di apparire cinici?
I nostri figli hanno visto i soldati, e le armi e bambini che correvano e corpi distesi coperti con telo nero, e ancora bambini.
Sfido gli esperti che invitano i genitori a riflettere coi loro figli su quanto accade, con la motivazione che altrimenti essi potrebbero pensare che la guerra è come quella che essi combattono nei videogiochi dove più si distrugge e più si uccide e più punti si ottengono.
Sono bambini, non stupidi. Sentono tutta la drammaticità dei volti segnati dal terrore e dallo sgomento. Sanno che le lacrime non sono virtuali, sanno che sono veri morti, è vero sangue e vera sofferenza. E vogliono risposte, soprattutto i più grandicelli, vogliono sapere, vogliono essere rassicurati.
Ma vogliono anche capire.
A noi toccano le risposte, e non sempre è possibile esorcizzare l'orrore della guerra con l'esempio di straordinaria umanità e umorismo di Roberto Benigni nel film "La vita è bella".
Le nostre spiegazioni devono essere adattate al livello della loro comprensione e del loro linguaggio, i nostri termini semplici e rispettosi della loro sensibilità.
L'importante, senza entrare in dettagli superflui, è non ingannarli, e trasmettere la forza per reagire ai sentimenti di rabbia, tristezza e paura che inevitabilmente accompagnano la conoscenza di realtà negative.
Ma se spiegare ai più piccoli è importante, parlarne con gli adolescenti diventa doveroso.
Con i nostri giovani bisognerebbe impostare un discorso in termini di fondamentale ingiustizia dell'azione che sacrifica la vita altrui, affinché il problema di fondo diventi la responsabilità che ciascuno deve avvertire per ciò che gli accade intorno.
Un tempo è stato giusto mostrare le foto della Shoah. La pubblicazione delle immagini dello sterminio degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale ha posto le basi affinché potessimo crearci una coscienza collettiva.
Oggi le notizie occupano intere pagine di giornali; alcune ci rimangono per un paio di settimane e poi scivolano via dalle pagine e dalla memoria.
Cessate le immagini, scemate le urla si torna alla quotidianità, alla tiepida sicurezza di chi è ormai abituato a guardare le guerre degli altri al di là dello schermo.
I quotidiani, le radio, le televisioni (ovvero i libri di storia dell’oggi) dovrebbero impegnarsi a seguire con più attenzione gli avvenimenti, non occupandosi solo del clamore da prima pagina, ma aiutando a capire anche a distanza di tempo, affinché il diritto-dovere di cronaca possa strumentalizzare sì i ricordi, ma per non dimenticare, per creare questa coscienza collettiva che educa alla pace in tempo di guerra.
Solo insegnando che l'indifferenza rende corresponsabili, tutti, genitori, educatori e mezzi di comunicazione, potremmo dare l'esempio di una società non violenta, che anticipa e prepara una nuova civiltà.
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